Franco Gallo
Presidente dell’Istituto della Enciclopedia italiana
e Presidente emerito della Corte Costituzionale
1. Questa giornata rappresenta il secondo atto di un’iniziativa dell’Università Europea dedicata alla tassazione dell’economia digitale. Il primo atto, come molti di voi ricorderanno, si è tradotto nella tavola rotonda del 23 febbraio 2016 svoltasi nella sede di detta Università.
Allora ci si era chiesti quale fosse il problema di fondo che da anni assilla le organizzazioni internazionali, il legislatore europeo e i singoli stati membri in tema di tassazione dell’economia digitale. L’OCSE aveva dato una prima generale risposta – che poi era una semplice constatazione – nel senso che il più importante ostacolo ad una ordinata tassazione dell’economia digitale era costituito dalla inidoneità degli attuali assetti fiscali ad intercettare i redditi prodotti dalle digital enterprises e, quindi, dalla inidoneità ad assoggettarli a tassazione in applicazione delle vigenti leggi e procedure.
Ormai è un dato di fatto, accettato da tutti, che questa inidoneità è la conseguenza delle difficoltà che le amministrazioni finanziarie incontrano di controllare, con gli ordinari strumenti di accertamento, le c.d. transazioni virtuali che si celano dietro la produzione di tali redditi, e cioè le transazioni globali anonime, immaterializzate e spesso prive di intermediari e dislocate in tutto il pianeta. Come è anche un dato di fatto che il settore dell’economia digitale, dominato dalle grandi multinazionali del settore, è in grado di produrre redditi molto elevati che difficilmente possono essere assoggettati a tassazione nel paese della fonte o sono, comunque, assoggettati in misura molto ridotta.
I tempi sono, perciò, maturi per procedere ad una ristrutturazione globale dell’attuale sistema delle imposte societarie e, comunque, per introdurre criteri e istituti nuovi che consentano di attrarre a tassazione anche attività – come quelle digitali – svolte nel territorio, ma non imputabili a stabili organizzazioni.
Questo è un problema non solo tecnico, da superare con un’adeguata strumentazione altrettanto tecnica. È anche un problema di giustizia fiscale. In questi ultimi anni, infatti, con una velocità senza precedenti, un numero ristretto di grandi aziende del settore digitale ha sconvolto la vita quotidiana degli abitanti della terra, consentendo loro di avere il mondo a portata di mano e di accedere con qualche click a qualsiasi tipo di contenuto. Non si può evidentemente rimproverare a queste aziende il loro successo. Si può però disapprovare l’effetto di tale rivoluzione, e cioè la differenza esistente tra le ricchezze che esse creano utilizzando i nostri dati personali, da una parte, e le imposte che corrispondono, dall’altra.
Da alcuni anni gli stati e le organizzazioni internazionali hanno deciso di combattere tale ingiustizia uscendo dall’immobilismo. Non potevano comportarsi diversamente. Si è calcolato, infatti, che le aziende tradizionali pagano 14 punti percentuali di imposte in più rispetto a questi colossi del digitale. Siamo tutti d’accordo che devono essere cambiate le nostre regole fiscali obsolete, ancorate a tempi in cui i tributi erano calcolati, prima di tutto, in funzione della presenza fisica.
Il tema della tassazione delle web companies va perciò affrontato con strumenti, procedure e principi tributari nuovi, possibilmente frutto di accordi intergovernativi.
2. Due anni dopo la ricordata tavola rotonda deve prendersi atto che sono stati fatti notevoli, seppur non definitivi, passi avanti soprattutto da parte dell’OCSE e dell’UE.
Ricordo che l’OCSE ha in diversi suoi atti messo in evidenza che le imprese dell’economia digitale, approfittando delle particolari caratteristiche di tale tipo di economia – e cioè, la mobilità, l’effetto network e la volatilità generata dalla rapidità dell’innovazione tecnologica – hanno avuto grande facilità a erodere le basi imponibili e a trasferire i profitti nei paesi a più bassa fiscalità. L’elevatissimo grado di dematerializzazione dell’industria digitale consente, infatti, a tali imprese di evitare di avere una taxable presence, attraverso una stabile organizzazione, nel territorio dello Stato presso il cui mercato sono attive e di ridurre e suddividere le funzioni, gli asset e i rischi presso il territorio di più stati.
Indubbiamente la presenza di intangibles altamente remunerativi favorisce il trasferimento infragruppo degli stessi al solo scopo di minimizzare il carico fiscale. Ed anche se si potesse configurare una taxable presence di tali imprese nel territorio dello Stato, esse potrebbero pur sempre disporre di un ulteriore tecnica di erosione della base imponibile, consistente nella massimizzazione delle deduzioni per i pagamenti effettuati nei confronti dello stesso head office o di altre imprese del gruppo non residenti sotto forma di interessi, royalties e service fees. Il tutto sfruttando anche l’interposizione di shell companies localizzate in paesi che godono di regimi convenzionali privilegiati.
L’utilizzo massivo dei dati digitali pone, dunque, il problema delle modalità con cui calcolare il valore economico della raccolta e dell’elaborazione dei dati per il tramite di prodotti e servizi digitali e di come questi elementi possano essere correttamente qualificati ai fini contabili e fiscali utilizzando parametri che non sono il reddito prodotto mediante stabile organizzazione.
È questo problema che specie negli ultimi tre anni l’OCSE, l’UE, la recente riforma Trump e i singoli stati nazionali hanno tentato di risolvere con strumentazioni a volte coincidenti, a volte divergenti.
3. Questa giornata di studio è, appunto, dedicata all’analisi e al commento delle proposte e delle normative che si sono snodate su questi fronti. Per quel che mi risulta, le proposte più qualificanti in proposito riguardano il concetto di stabile organizzazione e, in particolare, la creazione di un nuovo criterio di collegamento basato su una “presenza digitale significativa” dell’impresa nell’economia del territorio di uno Stato diverso da quello di residenza. Come sapete, l’OCSE al riguardo ha definito una serie di parametri, diversi da quelli tradizionali, che vanno dalla tipologia di attività concretamente esercitate dall’impresa nel territorio alle modalità di conclusione dei contratti alle tecniche di pagamento attraverso cui vengono corrisposti i prezzi da parte dei contraenti.
La Commissione UE, sulla scia dell’OCSE, ha fatto propri tali principi generali. Con una prima proposta di Direttiva, ha ritenuto, in particolare, sussistente una stabile organizzazione delle digital enterprises anche nell’ipotesi in cui non vi sia un’effettiva presenza fisica nel territorio dello Stato purché ricorrano alcune condizioni non cumulative con riguardo alle soglie di fatturato, di utenti o di contratti riferite a un singolo Stato membro. Secondo questa proposta – che è stata esaminata e commentata dalla bella circolare Assonime dell’agosto del 2018 – perché si generi una “presenza digitale significativa” è necessario che si sia realizzata una prestazione di un servizio digitale inteso come “Servizio fornito attraverso Internet o una rete elettronica, la cui natura renda la prestazione essenzialmente automatizzata e richieda un intervento umano minimo” (art. 7 del Regolamento di esecuzione 282/2011/UE contenente, appunto, la definizione di “Servizi prestati tramite mezzi elettronici”).
La seconda proposta di Direttiva riguarda a sua volta l’imposta sui servizi digitali (ISD). Essa è stata affiancata provvisoriamente alla prima nella consapevolezza della difficoltà di raggiungere in poco tempo un accordo sulla nozione di “presenza digitale significativa”. Di tale tributo si parlerà più diffusamente questa mattina. Mi limito qui a ricordare che si tratta di un prelievo corrispondente ad una vera e propria imposta indiretta sui ricavi al netto dell’IVA (la c.d. web tax europea) da effettuare provvisoriamente fino all’introduzione della Direttiva in materia di presenza digitale, con la quale condivide l’obiettivo di attrarre a tassazione nel proprio ambito applicativo tutte le attività digitali nelle quali il contributo dell’utente alla creazione del valore risulti significativo e non meramente marginale.
È apprezzabile quella parte della proposta in cui, in ossequio alla disciplina del transfer pricing, si basano i criteri di attribuzione dell’utile alla “presenza digitale significativa” sull’analisi sia delle funzioni svolte, sia degli attivi utilizzati, sia dei rischi assunti nelle diverse giurisdizioni. Si tratta, in particolare, dell’applicazione del c.d. profit split method di distribuzione dei diritti impositivi, e cioè del metodo reddituale multilaterale di ripartizione.
È sull’applicazione di tale metodo che – credo – si svilupperà il dibattito tanto all’interno della Commissione europea quanto a livello OCSE e dei rapporti tra l’UE e gli USA, specie dopo l’entrata in vigore della riforma Trump.
Riguardo poi alle iniziative assunte autonomamente dai singoli stati, ricordo che la Gran Bretagna ha affrontato questi temi in modo innovativo costruendo un interessante sistema di Digital service tax diretta a sostituire o, meglio, integrare la Diverted profit tax entrata in vigore ormai da più di tre anni e che non aveva dato grandi risultati. È con questa normativa, con quella della riforma USA – in particolare la Global Intagible Law Tax Income (GILTI), che è una sorta di super CFC – che dovranno confrontarsi i paesi dell’UE e dovrà, soprattutto, confrontarsi il nostro Paese nella prospettiva dell’applicazione nel 2019 della web tax italiana gravante sulle transazioni digitali business to business. Tali transazioni avrebbero dovuto essere individuate da un decreto ministeriale che, però, non mi risulta sia stato emanato. Tale decreto era atteso per il 30 aprile di quest’anno, ma non è stato ancora emesso essendo esso condizionato ad una decisione a livello comunitario che non è ancora arrivata.
Per quanto mi risulta, il prossimo ECOFIN, in programma il 5 e 6 dicembre, non dovrebbe risolvere la questione, non essendosi ancora raggiunta l’unanimità su una tassa digitale UE uguale e uniforme. Infatti, la Germania e il Regno Unito hanno frenato la loro iniziale disponibilità, lasciando alla Francia, all’Italia e alla Spagna il ruolo di front runner. Per avere una vera e propria web o digital tax europea si corre, dunque, il rischio di attendere il 2022, che è la data in cui l’OCSE ha programmato di terminare i suoi lavori di studio e di proposta riguardo ad un regime globale dell’imposizione sull’economia digitale.
Allo stato, quindi, al nostro Governo non resterebbe che riproporre la web tax italiana prorogando il termine per l’emanazione del regolamento sulla sua esazione.
4. In conclusione, si può dire che, allo stato, non si sono ancora individuate soluzioni di tassazione dell’economia digitale condivise a livello internazionale. La conseguenza è che, volendo assoggettare a un qualche prelievo nazionale le web companies, si corre il rischio di creare, allo stesso tempo, profili di doppia tassazione e di aumentare l’incertezza fiscale a livello internazionale.
Comunque, il primo problema da risolvere è e rimane quello di definire giuridicamente la nozione di valore introdotta nel Progetto BEPS e di trasferirla alla tassazione della digital economy. Tale nozione non è presente nei Trattati ed è basata su analisi economiche non facilmente traducibili in categorie giuridiche proprie della tassazione del reddito d’impresa.
Il secondo problema è se le nuove forme di tassazione debbano riguardare solo le imprese digitali e non, invece, tutte le imprese che basano, in tutto o in parte, il loro fatturato sullo sfruttamento di beni immateriali. È questo, evidentemente, un problema di politica industriale e non solo fiscale che, per quanto mi risulta, è alla base dei contrasti emersi in sede OCSE e riportati nell’Interim report del 2018. Tra l’altro, tassare solo le imprese digitali, come propone l’UE nelle sue Direttive, colpirebbe in larga parte le imprese statunitensi che hanno un quasi monopolio in materia.
Tutto ciò va detto, non considerando che, all’interno dell’UE, già alcuni stati si sono dichiarati contrari alle proposte di Direttiva della Commissione (Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda, Malta, Repubblica Ceca, Svezia, Finlandia). Altri paesi vorrebbero circoscrivere l’ambito applicativo dell’imposta digitale, evitando che sia tassata la vendita dei dati degli utenti. La verità è – e concludo – che saranno molto difficili soluzioni basate sulle sole iniziative legislative dei singoli paesi, prescindendo da un accordo a livello sovranazionale che accetti la possibilità di pagare delle imposte in uno Stato, sempre che esista una stabile organizzazione fisica.
Si torna così al punto di partenza, e cioè all’identificazione di una taxable presence. Ma se è così, mi domando allora se non sia il caso, in queste difficoltà, di tornare a ripensare anche per la digital economy all’utilizzo di un sistema di formulary apportionment basato su tre o quattro driver di più semplice e immediata applicazione che richiami il progetto iniziale OCSE della costruzione di basi imponibili consolidate delle imprese aventi sede nell’UE (la c.d. CCTB). Vi sarebbe, in verità, una terza via prospettata dalla Germania che, guardando alla riforma Trump, prevede l’applicazione di un’imposta minima sul reddito d’impresa a livello globale. Sul piano tecnico si tratterebbe di adottare in tutti i paesi un meccanismo che assicuri un prelievo minimo su tutte le imprese, a prescindere dall’allocazione dei profitti tra i diversi paesi. Mi dicono che la Francia sarebbe disposta ad appoggiare questa richiesta. Essa ha però il difetto, almeno a mio avviso, di sollevare problemi di doppia tassazione e soprattutto di non tassare – come si dovrebbe – le web companies nel luogo di vendita dei beni. Tale proposta si preoccupa, infatti, solo che queste imprese vengano tassate ad un livello minimo intervenendo sui meccanismi di profit shifting nei paesi della fonte dei pagamenti rafforzando le previsioni di CFC nel paese di residenza della controllante.
Con particolare riguardo alla specifica tassazione delle imprese digitali sembrerebbe che sia la Francia che la Germania si stiano indirizzando verso un nuovo compromesso, secondo il quale il tributo dovrebbe colpire con un’aliquota del 3% esclusivamente il fatturato di pubblicità on line delle grandi società digitali, con l’effetto di riduzione della base imponibile. La proposta di Direttiva dovrebbe essere approvata entro marzo del 2019 e avere effetto nel 2021, nel caso in cui l’OCSE non trovi un’intesa più generale entro tale data. La Direttiva verrebbe a scadere comunque “entro il 2025”. Alla base del frazionamento di tali date vi è evidentemente una certa cautela, specie della Germania, nel tassare il fatturato piuttosto che i profitti e nel peggiorare i già difficili rapporti con gli Stati Uniti. Da qui la preferenza per una decisione a livello globale, che per le ragioni che si è dette non sarebbe facile ottenere.
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