“Com’è che si dice in inglese?”
“Dillo nella tua, si capisce lo stesso.”
È questa una delle conversazioni più frequenti a Toronto, ospiti in casa di amici o nei locali di Downtown, nei parchi naturali vicini alla città o per le vie di Little Italy. Non è pronunciata per sfida, o per simpatia, ma per una modalità di convivenza ormai stabilita e funzionale, in una città in cui convivono duecento etnie differenti su una superficie totale di 630 kmq.
Troppo spesso confondiamo comunicazione e convivenza, pensando che l’intercultura si crei, quasi magicamente, grazie alla sola compresenza multiculturale, o grazie a politiche sociali illuminate che spianeranno la strada al dialogo e alla (cosiddetta e mai ben definita) multirazzialità.
Quando Claudia Mencarelli mi ha parlato per la prima volta dell’idea di una tesi di laurea triennale sulla realtà cittadina interculturale di Toronto, ho perciò pensato più volte a come avremmo parlato di comunicazione interculturale senza scadere negli stereotipi nei quali, al riguardo di una città (senza dubbio) multiculturale come Toronto, è facilissimo scadere. La questione linguistica, ad avviso di chi scrive, è stata invece il volano per affrontare la tematica da un punto di vista molto più pratico e vissuto - non a caso presentando poi i vissuti reali delle persone coinvolte nell’indagine qualitativa.
La lingua svolge funzioni molteplici: l’identificazione di una appartenenza sociale, l’espressione del sé (o dei diversi sé), l’influenza politica verso uno o l’altro schieramento, l’educazione ad un sistema di valori, l’incarnazione della cultura. Ma quale sarà, allora, la lingua dell’intercultura? Dobbiamo aspettare che l’evoluzione tecnologica o biologica ci regali il “pesce traduttore” della Guida Galattica per Autostoppisti per poter capire tutte le lingue pur parlando la nostra?
Il ruolo della lingua inglese è interessante in quanto tramite, quasi potremmo dire come metodologia. Nato come lingua colonialista, tuttora una delle due lingue nazionali di un Paese comunque governato dalla Corona del Regno Unito, l’inglese si è in ogni caso evoluto fino a ricoprire una funzione complessa. Da un lato, la lingua “comune” fa da tramite tra il cittadino stabile e quello appena arrivato, senza distinzioni linguistiche di provenienza; dall’altro, essa fa anche sì che le diverse culture presenti riescano a mantenere i propri sistemi linguistici e culturali, integrandoli con quelli della cosiddetta “società ospitante”, che altro non è che una costellazione culturale in continuo mutamento. In questo senso, quella che era la lingua colonialista diviene ecumenica, parlata (male) da tutti, che a tutti permette l’integrazione con l’altro; scrivere queste righe a Richmond Hill, a pochi passi dalla comunità coreana, alcuni in più rispetto a quella iraniana, in un quartiere semiresidenziale popolato da italo-canadesi, può forse rendere l’idea dell’immersione culturale che si verifica nella città e nell’hinterland.
Una delle cose che più apprezzo in questo lavoro, è la sua ricerca della descrizione del come si possa vivere interculturalmente insieme con gli altri, senza preoccuparsi minimamente del perché questo modello interculturale funzioni. E questo è giusto. L’unico motivo per cui Toronto “funziona” è perché ha preso atto di qualcosa di inevitabile: il vivere insieme in una relazione interculturale, che passa per la lingua e per le lingue, veicoli di rappresentanza dei diversi sé, e della città intera.
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